Dichiarazioni di terzi valide per attivare l’analitico-induttivo

19.05.2025

L'accertamento analitico-induttivo di cui all'articolo 39 del Dpr n. 600/1973 può essere basato anche su dichiarazioni rese dai fornitori del contribuente soggetto al controllo fiscale. Questo principio è stato espresso dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 9151 del 7 aprile 2025.

Il caso ha riguardato un accertamento mediante il quale a una società in accomandita semplice sono stati contestati maggiori redditi e determinati minori costi in presenza di fatture fittizie emesse per operazioni inesistenti.
In particolare, l'accertamento è scaturito dalle divergenze che sono risultate tra la contabilità della società e le dichiarazioni dei terzi fornitori, fornite in risposta ai questionari inviati dall'ufficio.

In seguito al giudizio di primo grado la Ctp di Brindisi ha accolto solo in parte il ricorso della società, mentre la Ctr della Puglia, con la decisione n. 1731/2018, ha annullato integralmente l'atto impositivo. I giudici tributari hanno ritenuto che le dichiarazioni rese dai terzi fornitori avevano il valore di mere presunzioni semplici e che, pertanto, per poter assumere rilevanza, dovevano essere corroborate da ulteriori elementi desunti dalla contabilità della società sottoposta a controllo.

Successivamente al ricorso presentato dall'Amministrazione finanziaria, la Corte di cassazione ha richiamato il proprio orientamento, in base al quale "…le dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale hanno il valore probatorio proprio degli elementi indiziari, senza che ciò comporti il venir meno del potere-dovere del giudice tributario di valutare l'attendibilità delle dichiarazioni, secondo il principio della libera valutazione delle prove…" (cfr pronuncia n. 28022/2024).

Con la richiamata pronuncia del 2024 la Cassazione ha in sostanza specificato che la credibilità dei dichiaranti dovesse essere valutata in base a elementi oggettivi e soggettivi, come, ad esempio, la qualità e la vicinanza dei dichiaranti alle parti.

Nel caso in esame, il ricorso alla forma di accertamento analitico-induttivo è stato giustificato dalle numerose incongruenze riscontrate, che denotavano l'irregolare tenuta della contabilità, con particolare riferimento alla contabilizzazione di passività inesistenti e alla mancata prova di pagamenti formalmente effettuati.

È, altresì, emersa una notevole discrepanza tra i debiti risultanti dalla contabilità della società e gli importi dichiarati dai suoi fornitori.

I giudici della Corte di cassazione hanno ritenuto legittimo l'utilizzo del metodo di accertamento induttivo, considerato che si è in presenza di una contabilità che, sia pure formalmente regolare, è di fatto inattendibile. La Corte di legittimità ha, quindi, affermato che l'ufficio poteva desumere in via induttiva il reddito della società, avvalendosi di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, con conseguente onere a carico della società di fornire la prova contraria, dimostrando la correttezza del proprio operato.

Sulla base di queste considerazioni, pur evidenziando che i fatti accertati nel giudizio penale devono essere sottoposti a valutazione critica a opera del giudice, ha confermato il principio consolidato in base al quale "…le prove raccolte in giudizio penale definito con sentenza irrevocabile costituiscono fonte di prova che il giudice tributario è tenuto ad esaminare e da cui può trarre elementi di giudizio, sia pure non vincolanti, su dati e circostanze ivi acquisiti con le garanzie di legge".

È stata, quindi, cassata la sentenza della Ctr della Puglia, in quanto i giudici tributari non hanno valutato il complessivo quadro indiziario che ha giustificato il ricorso all'accertamento analitico-induttivo, ma si sono limitati a richiamare la sentenza assolutoria emessa in sede penale nei confronti del socio accomandatario della destinataria dell'accertamento fiscale.

Nella motivazione della sentenza in commento i giudici hanno anche affrontato il tema dell'applicabilità, alla vicenda in esame, del disposto di cui all'articolo 21-bis del Dlgs n. 74/2000, in tema di efficacia delle sentenze penali nel processo tributario e nel processo presso la Corte di cassazione.

Al riguardo, hanno ritenuto che, nel caso concreto, non fosse applicabile tale disposizione, in base alla quale la sentenza irrevocabile di assoluzione perché il fatto non sussiste o l'imputato non lo ha commesso, pronunciata in seguito a dibattimento nei confronti del medesimo soggetto e sugli stessi fatti materiali oggetto di valutazione nel processo tributario ha, in quest'ultimo, valore di giudicato in merito agli stessi fatti.
Ciò in quanto il mancato deposito della sentenza penale ha reso impossibile qualunque forma di verifica in merito al contenuto del giudicato stesso.

Per questi motivi è stato accolto il ricorso dell'Agenzia delle entrate.


Da Fisco Oggi